Poesia del macello, macelleria pittorica. Parola e figura dal corpo alla carne: Ferrari e Bacon

Ficco dita nelle narici dure
del toro decapitato
cerco intimità e pensiero
in quel vigore moncato
quando potrei avere colme
le mani di mammelle

Scene. Una goccia di sperma cade nella vasca del sangue, in una mattina di forte macellazione. La bava degli animali stramazzati esce dalle loro bocche e invade tutto, la gabbia, la canaletta del sangue, il camminamento dei bovini, la postazione in cui si attaccano le etichette, il laboratorio, gli spogliatoi e gli uffici. Bava. E poi sangue, merda, sperma. Topi e larve, vermi e mosche, divorano carogne e carne guasta. Odore di putrefazione. Un toro, in fila per la macellazione, sodomizza il compagno davanti. Un altro scappa. Un vitello e una manzarda si accoppiano l’ultima notte della loro vita. Feti bovini sparati. Placenta. Maiali appesi impazziti di luce. E poi ancora agnelli, gatti, colombi malnati, cani senza contratto. E gli uomini dalle orbite verdastre, i boia, i praticanti, gli addetti, i macellatori. La partita durante l’intervallo, la palla: il cuore sodo di un toro. Le canzoni d’amore cantate mentre si riempiono d’acqua i budelli. E il poeta, mentre si aggrappa a una bestia morta dondolante. Mentre appoggia le labbra sulla vagina di una macellanda, o le inserisce in vagina un foglietto in cui ha scribacchiato velocemente dei versi. Infila le dita negli sfinteri, negli orifizi e nelle narici degli animali. Accarezza teste mozzate nel lavatoio, si ritrova come sciarpa un pene di toro. Annusa il culo di un vitello in attesa del macello.

Nella raccolta Macello di Ivano Ferrari (pubblicata da Einaudi nel 2004, ma scritta molti anni prima), traspare con necessaria potenza la domanda sulla “colpa” dell’umanità dei consumi nei confronti degli animali macellati. Di questa domanda, non mi importa nulla. Inoltre, una lettura moralistica, o peggio ancora “animalista”, di queste poesie, (quasi ci fosse una macellazione più umana), rileva poco. La grandezza poetica di Ferrari, ancora pressoché sconosciuto, sta altrove. Un altrove che è il nodo alla gola del lettore, da cui sorge una domanda fissa, turbata ma precisa: com’è stata possibile questa poesia, da qui?

“Qui” – spazio. Il macello comunale di Mantova, in cui ha lavorato il poeta. I macellai sono tutt’uno con le bestie. O meglio, devono esserlo. Essi annullano pensiero e vista nella meccanicità di ogni azione. Primato del meccanismo sul gesto, per congelare lo sguardo: “anestetica del theorein”. E allora il miracolo: dal blocco del pensiero, dal rifiuto della contemplazione, la sublimazione poetica, cruda e dolce, orrida senza il gusto dell’orrido. Oppure, ancora, i macellai trasfigurano quelle azioni-lavoro con il gioco o con la masturbazione. Il sesso è ricorrente lungo tutta la raccolta, a testimoniare la prossimità tra impulso sessuale e morte, e riguarda tanto l’uomo quanto l’animale. Ad esempio vi è uno stanzino in fondo allo spogliatoio, la stanza delle seghe, dove, vicino ai manifesti di tagli di carne animale evidenziati a colori, campeggiano foto di donne nude. L’abissalità del sesso e della morte resa il più possibile esposta e manifesta, per essere desacralizzata, esorcizzata, tollerata: la superficie che si sforza di mostrare il fondo.

“Qui” – tempo. Quasi tutte le poesie sono all’indicativo presente, perché il tempo nelle sale del macello non muta, ma si fissa, monotono e monocromo, nella continua mattanza. La stessa attesa della propria macellazione, che l’animale vede-odora, sembra essere detemporalizzata, fissata negli occhi fissi dei macellandi o nei loro ultimi gesti, vani e inconsulti: saltare, urlare, defecare, scopare. Tra l’animale ancora in vita e quello morto non vi è salto, cambiamento di stato, né temporale né fisiologico. Coagulo di morte in vita e di vita morta, così, quasi barocco, il luogo è laterale, isolato, indifferente e rimosso dalla grande narrazione del mondo. Non-luogo che sta sotto, popolato dagli “uomini minori” che, nel confezionare il pasto degli altri uomini, ne conservano e nascondono anche il segreto più ancestrale, l’essenza non storica della storia lì fuori. Ma di questo, poi.

La grandezza delle poesie “senza guinzaglio” di Ferrari sta, prima di tutto, nel dolore che impartisce agli organi sensoriali, non degli animali, ma del lettore. In particolar modo l’udito e l’olfatto vengono continuamente disturbati dal realismo di versi laconici, cinici eppure incredibilmente trasognati. Il rumore di ossa e reni calpestati; l’odore della putrefazione, del sangue rappreso, delle vasche di letame. Ma il poeta è lontano sia dal realismo ingenuo sia da quel realismo smanioso di disgustare, ferire, turbare. Se in Ferrari ha senso parlare di realismo, questa realtà raccontata è densa di simbolicità e di rimandi, ed al contempo, nella sua crudità, vi è una riflessione sul significato e sulla possibilità della parola. Della parola che parla della carne. Il “dispositivo” utilizzato da Ferrari non santifica la realtà e, in qualche modo, non crede alla realtà. La realtà è irrimediabilmente proiettata al di là della parola, anche della parola più nauseante e reale, eppure in quella realtà Ferrari cerca ancora la parola non riflessa, precisa, identica alla materia. Cerca la carne della parola. La poesia arriva dalla tensione di questa contraddizione tra parola della carne e carne della parola. Ma andiamo per gradi.

Qual è il dispositivo? Lo stesso di Francis Bacon: quello che dal corpo passa alla carne. Dopo Nietzsche, il Novecento rende evidente l’assoluta artificiosità della naturalità del corpo. La presunta dimensione naturale del corpo è in realtà una dimensione meramente culturale, ideologica. L’organico e la sua unità vitale devono risolversi nella brutalità esposta della carne che vi sta sotto. Corpo e spirito vengono rigorosamente desacralizzati. Il corpo manteneva una propria sacralità anche nelle opere che, in passato, maggiormente ne mostravano la caducità – su tutti, Grunewald o Rembrandt. A questa demistificazione partecipa sicuramente anche l’arte del Novecento. L’operazione di macelleria pittorica di Bacon ne è forse il più grande esempio. Non interessa, qui, indicare possibili legami e riferimenti di Ferrari a Bacon. Importa lo svolgersi di un’idea, di una comune direzione demistificante. Bacon dipinge “corpi” in preda al delirio di una carnalità priva di scheletro spirituale, deformati, consumati, distorti. L’intento è di incorporare il movimento nella materia, il movimento che il sistema nervoso produce nella carne del vivente. Implacabile e tragico, proprio di ogni esistenza. Dipingere è dipingere forme della distruzione, perché la vita, dalla nascita, è lunga deteriorazione. Tutta la morte è in vita, vita che si macella. Di questo massacro, Bacon sa di poter restituire solamente un debole riflesso, ché la vita è uno strazio e una decomposizione infinitamente più grande della parola-figura dell’arte. Ché la Natura sta oltre l’arte, le forme, la storia. L’unica forma possibile, anche se insufficiente, è quella che nasce insieme all’eccitazione palpitante per la putrefazione incipiente, per la vista della morte che lavora dentro ogni individuo. I corpi deformati di Bacon, manifestando il trionfo straziante della fragilità della carne indistinta, rappresentano la macellazione dell’unità metafisica di corpo e anima. Successivamente a Bacon, l’arte avrebbe ancora tentato di restituire i moti nervosi della carne, ma uscendo dalla superficie della tela, perchè ritenuta in qualche modo sacralizzata dalla tradizione. Si tentò, allora, di superare Bacon. Ci riuscì la Body art, ma, temo, solo in parte. Si iniziò con le performance in cui si violava il corpo dell’artista stesso o di un animale. Mi riferisco al movimento Actionismus, ad artisti come Rainer, Schwarzkogler e Nitsch, e poi Acconci, Gina Pane, Orlan e Hirst. Se la finzione teatrale della rappresentazione artistica faceva tutt’uno con la realtà di quanto veniva solo apparentemente rappresentato, e questo fu il guadagno più grande, tuttavia la dimensione teatrale assumeva un valore troppo evidente che proiettava l’evento in una dimensione di nuovo ieratica, sacrale. L’evento diventava cioè comportamento, espiazione, purificazione di una colpa ancestrale. Il corpo tornava ad assumere, di riflesso, una nuova sacralità: tornava ad essere corpo, la carne non stava più al di là, ad interrogare la possibilità del linguaggio. Si pensi a quando, durante una biennale di Venezia, la Abramovic si esibì lucidando di un mucchio di ossa di bovini, per purificare simbolicamente l’umanità da una colpa incancellabile. Non vi è nulla, in questa performance, che rilevi qualcosa di nuovo o più profondo, rispetto al problema del linguaggio straziato della/dalla carne di Bacon – e Ferrari. Del resto, un messaggio così facile, così, in fin dei conti, moralistico, come quello della Abramovic, fa più audience tra la bassura dilagante che vive oggi di arte contemporanea.

La poetica di Ferrari, per quanto non abbia avuto la stessa fortuna, non è distante dalla pittorica di Bacon. Entrambi sanno che ogni forma della carne, è sempre prima di tutto forma. Ma sanno anche che la carne di dà, che puzza, che si calpesta, si decompone. E da questa decomposizione nasce, intima, l’ossessione di una forma che mai raggiungerà la carogna, che mai sarà realmente mortifera. Sanno che dall’indistinto della materia che massacra sé stessa non nasce, immediato, alcuna categoria morale, alcun peccato ancestrale, se prima non ci si interroga su come nasca una parola per quel macello. Sono opere, in qualche modo, genealogiche.

Com’è possibile poesia “da qui”, s’è detto all’inizio. Ora la domanda è più chiara. Da qui sta per tre luoghi. Il primo è l’evento determinato, il luogo preciso, il macello comunale di Mantova. Il secondo è la metafora storica, per cui storia dell’uomo è storia del massacro (dell’uomo sull’uomo, sulle bestie). Il terzo non è né evento determinato né processo storico, ma il fondo oscuro di ogni determinato, di ogni storico. Il nucleo non storico della storia: l’Indifferenziato, il caos della carne del mondo, l’ingens sylva. Indifferenza tra corpi, materia indistinta, mescolanza e promiscuità tra viventi, sperma e sangue, insieme di carne non differenziata, non “logicizzata”: questo al fondo della storia, che fonda la storia, che può continuamente capovolgere la storia. Il tutto-corpo non logico, non politico, non storico. Non vi sono individui, solo corpi che trabordano dai corpi stessi. È questa la sfera troppo umana evocata dal macello.

Come, allora, poesia, linguaggio, parola, dall’Indifferenziato, dal non-pensato, dalla pura promiscua violenza? Allo stesso modo: come, allora, poesia, linguaggio, parola, dell’Indifferenziato, del non-pensato, della pura promiscua violenza? Come Parola dalla Carne, e come, con la Parola, restituire la Carne? Qui il capolavoro poetico di Ferrari. Come scriverà in una raccolta successiva, La morte moglie, “si tratta di staccare ogni parola / dalla carne”. Capolavoro perché pensa e vive la contraddizione della Cosa e del linguaggio, facendola emergere dalle sue condizioni nello stesso tempo in cui la distrugge. La parola è chiamata ad esprimere un contenuto impossibile per il linguaggio, da quel contenuto stesso in cui il linguaggio scaturisce. Il linguaggio entra in contraddizione con se stesso per esprimersi, perché qui il pensiero poetante pensa i limiti del linguaggio. La forma, in qualche modo, manca del contenuto e il contenuto manca della forma che pure lo pone. Così la parola fa tutt’uno con l’azione del macellatore: la poesia si fa gesto. Inserire un foglietto di versi nella vagina di una macellanda, per poi ricercarli al termine della macellazione, non è solo perfetta metafora della poesia che narra la sua stessa essenza: entra in vagina per farsi carne, per essere sesso e morte, per poi ritrovarsi (o non ritrovarsi) dopo la morte, dopo lo squartamento del sesso, come poesia postasi in carne, in sesso e morte, e quindi mai veramente carne sesso e morte. Non è solo metafora. La poesia fa tutt’uno con il suo gesto, oltrepassando anche il contenuto più o meno metaforico di questo gesto. Accade qui un gesto che si fa poesia del gesto stesso. La parola avviene unitamente con il gesto, è performativa, creatrice, cosa: la parola è nell’atto, ma non nell’atto della parola, ma nell’atto che si attua anche come parola futura. Ma è davvero così? O il gesto accade radicalmente prima della parola? E la parola tradisce necessariamente il gesto, per la semplice colpa d’essere parola del gesto? È possibile unire gesto che si fa poesia alla poesia del gesto – del gesto che si fa poesia? Non può esservi una risposta, ma una suggestione, quasi una domanda. E se qui gesto e poesia fossero a tal punto uniti, da creare un contenuto-gesto-poesia in cui la poesia si auto-narrasse nel gesto, ed il gesto si facesse, da solo, poesia? Se cioè il contenuto-gesto della poesia escludesse completamente da sé prima il poeta e poi la poesia stessa? Se la poesia arrivasse dopo la poesia? È un’infinità aporetica di rimandi, che solo le grandi opere, quelle cioè che pensano lungo i limiti del proprio linguaggio, sono in grado di evocare. Se è vero che alcune poesie di Ferrari abbandonano perfino il poeta, figuriamoci l’interprete. Infinitamente lontano, porta le sue scuse.

Lo stanzino in fondo allo spogliatoio
è detto delle seghe
affisse a tre pareti foto di donne
dalla vagina glabra
nell’altra il manifesto di una vacca
che svela con differenti colori
i suoi tagli prelibati.
*
La mia pelle ripulita e triste
il cuore glabro
il colorito bluastro
bene, io sono quello
che stabilisce la commestibilità
dei vostri miasmatici cibi.
Giuseppe Gris
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