
Dino Buzzati, la letteratura, l’uomo e la condanna del tempo
Quale sconfinato mondo strano e errante, la letteratura offre un rifugio dalle nefandezze quotidiane, dal dolore intimo che ognuno di noi può provare, a causa dell’altro, di un perché, di un dramma che la vita ci costringe a vivere. Perché siamo su quello sgabello instabile, che traballa tra l’essere e il nulla, tra il baratro e l’esserci. E ci serve solo quella piccola immensa forza di volontà che ci spinge a vivere. Il faut tenter de vivre d’altronde, come recitava Paul Valery. Perché in fondo noi siamo esseri profondamente inadeguati. Questo è quello che la letteratura, in un modo o nell’altro, può offrirci. Uno spazio dove il nostro io sconfina entrando in un’altra dimensione. Una dimensione in cui cerchiamo di ritrovar noi stessi, al di là dei nostri vissuti particolari. Una dimensione in cui annullarsi, vivere altre vite, che indubbiamente non sono le nostre, ma in fondo lo sono. Una dimensione che ci ricordi di sentire, che ci ricordi il sentire quello vero e proprio, che ci ricostringa ad amare, a pulsare, a riflettere su ciò che siamo e non siamo, su ciò che amiamo e ci spezza, ci apre in due, come scriveva Philip Roth. Quella dimensione in cui, a contatto con l’autore che stiamo leggendo, cerchiamo disperatamente di ritrovar noi stessi, una risposta alla nostra condizione, una soluzione al nostro dilemma, una via di fuga al nostro strano e inutile dolore. E allora si fluttua, tra una pagina e l’altra, si cerca, ci si immedesima, si rimane basiti di fronte ad alcuni passi che più di altri ci turbano e ci inducono a sentire quello che normalmente non siamo abituati a sentire.
La letteratura è forse l’unico luogo in cui riusciamo a scorgere l’ἀλήθεια o un altrove in cui siamo veramente ciò che siamo e il nostro essere si disvela nei personaggi di cui leggiamo e nelle loro oscure e recondite sensazioni, là dove, neanche l’altro, col suo sguardo capace di ferirci e ucciderci, può veramente arrivare. La letteratura è forse lo specchio per eccellenza, quello specchio in cui facciamo fatica a rifletterci, per paura di non sopportare ciò che realmente potremmo riuscire a vedere e a vivere. Ciononostante è quello specchio di cui, alcuni di noi, non possono fare assolutamente a meno.
E questo vale anche per alcuni scrittori, che usano la propria arte per scoprire e scoprirsi, per mettersi a nudo su un foglio e leggersi dentro, sguazzandoci senza fiato.
E forse perché siamo umani, troppo umani, e a saperlo fin troppo bene era, tra gli atri, proprio Dino Buzzati.
«Ci sono individui […] che maturano tardi, molto avanti con gli anni. Io debbo essere uno di quelli. Molte cose non le capisco ancora, altre le ho capite quando non mi serviva più di capirle. L’amore per la donna, dico l’amore, non l’andarci a letto, le gelosie, le lacrime di passione, il desiderio di morire o addirittura di uccidersi, il piacere disperato di soffrire per un’ingrata, per un’infedele, tutto questo l’ho scoperto solo in questi tempi. Non saprei dire se son diventato finalmente maturo, o arrivo appena adesso ai vent’anni» (P. Monelli, Ombre Cinesi. Scrittori al girarrosto, Mondadori, Milano 1965, pag. 111).
Questo è quello che Buzzati dice di sé in una conversazione con Paolo Monelli nel 1961, e rivela già il nocciolo della sua immensa poetica e della sua concezione dell’umano e del tempo, la cui condanna pende vertiginosa sulle nostre teste impotenti.
Edita nel Settembre del 1972, Le Notti Diffcili è l’ultima raccolta di elzeviri e racconti pubblicata da Buzzati prima della sua morte (28 Gennaio 1972). Vivacemente criticata, l’opera assembla materiale parzialmente inedito, scelto dall’autore dopo aver passato meticolosamente in rassegna la sua vasta produzione, parte della quale aveva già avuto spazio sul “Corriere della Sera” – di cui fu cronista, redattore e inviato speciale a partire dal 1928 – e su altre riviste. La vocazione dell’opera è fortemente autobiografica, considerando anche la presa di coscienza, da parte di Buzzati, della sua morte imminente. Molti dei racconti sono infatti scritti in prima persona, citando direttamente il suo nome, come se Dino stesso fosse parte integrante delle sue narrazioni fantastico-realistiche.
Quest’opera ci costringe a riflettere, ci costringe a fare i conti con il nostro essere, con le nostre contraddizioni, con la banalità del male, l’ingenuità dei sentimenti e la precarietà dell’amore. Qui, più che altrove, Buzzati si presenta a sé stesso e al suo pubblico senza mediazioni e senza inganni.
In Le Notti difficili si evince (più che in In quel preciso momento ad esempio) un rapporto intensissimo tra il fantastico e la realtà, quel fantastico che per Buzzati deve sempre sfociare nella realtà. Tra il dovere di cronaca, che ne fece uno dei più grandi giornalisti dei suoi tempi, che non poteva prescindere dalla letteratura, e la fantasia, anch’essa imprescindibile, che sfocia a sua volta in quel realismo fantastico che è sicuramente la sua tecnica narrativa per eccellenza. Come anche l’uso sfrenato dell’allegoria, utilizzata per esprimere il male e le sue mille sfaccettature o la condizione dell’uomo che versa nella sua enigmatica condanna calata, a sua volta, nella sua del tutto casuale e fortuita esistenza.
«[…] Il pensare che, se si verificano condizioni ambientali uguali a quelle che videro prodursi la razza umana, debba presto o tardi venire alla luce una creatura come noi, è puerile ingenuità. Condizioni di quel genere possono determinarsi milioni di volte senza che per questo debba comparire l’uomo. Nasceranno i batteri, le amebe, i tardigradi, i celenterati, gli insetti, i rettili, i mammiferi, le balene, gli elefanti, i cavalli, le scimmie parlanti, perfino i cani boxer che sono tra le invenzioni più felici del creato. Ma l’uomo no.»
«L’uomo infatti è un’imprevista anomalia verificatasi nel corso del processo evolutivo della vita, non il risultato a cui l’evoluzione doveva necessariamente portare. È mai concepibile infatti che l’officina della natura mettesse determinatamente in circolazione un animale nello stesso tempo debole, intelligentissimo e mortale cioè inevitabilmente infelice? Fu una specie di sbaglio, un caso quasi inverosimile che ragionevolmente non ha motivo di ripetersi in nessuno dei pianeti – ce ne sono forse miliardi di miliardi di miliardi – i quali presentano condizioni ambientali uguali alla terra […]». (Che accadrà il 12 Ottobre?).
Deboli, intelligentissimi e mortali cioè infelici, siamo frutto di una pura casualità, siamo una specie di sbaglio. E appunto ontologicamente infelici, alla continua ricerca di un barlume di illusoria felicità, quasi tale affannoso perigliar fosse la vera chiave delle nostre esistenze, ci aggiriamo inciampando continuamente nel nostro piccolo e misero universo personale. E nel frattempo perdiamo di vista il resto, il vero vivere, la nostra vera esistenza. Quella che ci attornia ogni giorno, con cui veniamo, ogni istante, in relazione, l’ovvietà in cui si dischiude la bellezza, e noi proprio non riusciamo a vederla, il volto dell’altro che ci sta di fronte e che ormai facciamo fatica a riconoscere e a rispettare, risospinti verso un fine che potrebbe epifanicamente scivolarci di mano un giorno, frantumandosi al suolo in mille pezzi, lasciandoci soli e disfatti con il nostro ego mortale.
«Spesso gli uomini perseguono una felicità che basterebbe il semplice buon senso a dimostrare in partenza irraggiungibile.» (Desideri sbagliati)
Questi e molti altri spunti di misera riflessione offrono al lettore queste splendide pagine buzzattiane. A parere di Domenico Porzio, curatore dell’edizione Mondadori dell’opera, qui «riappaiono, dunque, con più immediata combustione i temi di sempre: l’inquietudine delle attese, il precipite rotolare del tempo, la muta bellezza delle montagne, gli incubi notturni, la atterrente indifferenza del destino, l’illusione della spavalda giovinezza, lo spavento che scaturisce da una minima ed ammonitrice smagliatura nella norma, la vanità delle glorie e delle ambizioni mondane, la precarietà dell’amore, i mostri improvvisi, la solitudine irrimediabile, l’inganno della medicina, la magia racchiusa nell’ovvio, la straziata pietà per gli indifesi, i vecchi, gli animali, la condanna della stupidità massificata ed il ricorrente, sconsolato appello alla fantasia liberatrice».
In Le notti difficili la fantasia, la satira e l’ironia incombono massicciamente in tutte le loro sfumature, e i grandi temi qui elencati incalzano prepotentemente pagina dopo pagina costringendoci alla resa dei conti con le ultime parole che Buzzati voleva fossero pubblicate, diffuse e lette. Quelle ultime parole che sanciscono la pronfonda originalità dell’autore e la sua sconcertante attualità (si veda ad esempio Contestazione globale).
Protagonista indiscusso nella produzione buzzattiana (si pensi a Il deserto dei Tartari), l’inganno del tempo ripercorre, come un filo inestricabile, ogni pagina della raccolta, costringendoci alla presa di coscienza del nostro vivere nelle maglie profonde e industruttibili del grande e supremo tiranno.
A partire da I giorni perduti, veniamo catapultati nell’irreversibilità della nostra condizione: il tempo non ci restituisce nulla e non ci offre mai una seconda chance. È sempre troppo tardi, nelle nostre esistenze, che ci accorgiamo, voltandoci maldestramente e inutilmente indietro, di quanto lasciamo alle nostre spalle e che mai più potremo rivivere. L’ovvietà di una tale constatazione ci schiaccia e ci costringe ad accettare, nell’impotenza profonda dei nostri gesti, l’ombra della notte che scende e ci consegna, sconfitti, a un nuovo giorno.
E tale consapevolezza, si incontra più amara a seguire.
«L’antico rimpianto sì. L’afflizione inguaribile sì. La maledetta speranza degli anni lontani, sì. L’invisibile mostro, sì. Ancora una volta l’ha presa. Lentamente affonda gli aculei nel solitario cuore». (Crescendo)
E ancora più dolce e beffarda.
«Di tanto in tanto, ogni due tre mesi, a una certa ora della notte, i rumori della città all’improvviso si spengono. E allora si ode il ticchettio dell’orologio, per mesi e mesi nessuno se ne era ricordato. Eppure continuava a camminare. E anche adesso continua. Cammina, dici? Corre, galoppa, vola. Capisci? È il tempo. Precipita, divorando la vita nostra, olé». (Mosaico)
E tagliente e sprezzante.
«Non agitarti. Non prendertela. Anche senza catastrofe aerea, per quelli là sarebbe stato lo stesso.
“Come sarebbe a dire?”
“Assolutamente lo stesso. Il futuro, i calcoli sull’avvenire, i progetti…Sciagurati. Hai visto, no, com’è precipitato quel coso. Credi tu che le ore, i giorni, i mesi, gli anni, che precipitano su di noi siano meno veloci?”». (Racconto a due)
E così via.
Eppure, pare esserci una crepa in cui il possibile, come una piccola scintilla, può sfavillare debolmente nel cuore dell’uomo.
«Il tempo, si sa, è irreversibile. Eppure, come la fatale discesa dei fiumi consente qua e là dei rigurgiti, dei gorghi, delle controonde che potrebbero quasi far supporre eccezioni alla legge della gravità, così, nella smisurata trama del tempo, di quando in quando si determinano piccole crepe, intoppi, smagliature, che per brevi istanti ci lasciano sospesi in una dimensione arcana, agli estremi confini dell’esistenza». (Smagliature del tempo)
Non resta che tentare di comprendere dove si annidi la speranza, qualora esistesse davvero quel sentimento che nutre l’animo umano conferendogli la forza necessaria a vivere. Che non si tratti forse della Bellezza? Quella bellezza che sfugge al nostro misero ego e talvolta, ma solo raramente, quando siamo capaci di scorgerla, ci inchioda, svelandoci quella risposta che tanto cerchiamo e che ci rende presenti a noi stessi.
«Ancora una volta stasera il plenilunio ha illuminato il giardino e la nostra casa di campagna.
Io ero in salotto con i miei, alla luce elettrica. Si discorreva, si fumava. Ma io sapevo bene ciò che stava accadendo fuori. Era una delle cose più perfette inventate dalla natura e dall’uomo (e dico dall’uomo perché la luce di luna sulle case, monumenti, ruderi, strade, è molto più conturbante che negli ambienti selvaggi, deserti, montagne, savane, greti di fiume).
E non costava una lira. Eppure, io me ne stavo seduto in casa coi miei a discorrere, leggere, fumare. Aspettavo. Avevo una specie di paura. Rimandavo di minuto in minuto.
Poi, simulando una sorta di svogliatezza, per non dare troppa attenzione a quella spaventosa faccenda là fuori, ho aperto i grossi battenti della porta di legno, che era già stata chiusa. Sono uscito in giardino. Col gesto di chi mette fuori il naso per vedere che tempo fa. Come se non avessi saputo. E immediatamente, al primo sguardo, quella cosa fortissima, astrusa, estremamente personale, è calata qui dentro, nelle viscere.
Ancora una volta – e lo stesso fenomeno si ripete ogni estate, dal tempo dei tempi – mi sono chiesto: perché? Perché questa bellezza senza rimedio, struggente, trasfigurazione del mondo, poesia allo stato puro? Perché? Da dove viene? Dal silenzio? Dall’immobilità sepolcrale delle cose? Dalla particolare luminescenza che assumono gli oggetti, gli edifici, i paesaggi? Dal fremito impercettibile della luce lunare sul prato, sulle piante, sui muri, sulla campagna intorno? Dalla sterminata pace? Dall’intensità esagerata delle ombre, vive e tenebrose come l’abisso di cui mai vedremo il fondo, dove un giorno precipiteremo? Non basta. Dal senso di mistero, allora? Ma che cosa significa mistero? Non se ne fa un continuo abuso? Dalla presenza, forse, alla base dei cespugli, dove il buio è più nero (e contemporaneamente nelle cavità deserte delle soffitte), la presenza di vecchi spiriti, elfi, gnomi, piccole fate, rospi, negromanti e profeti? Ma gli spiriti, purtroppo, non esistono. O dalla presenza invisibile, quieta, rassegnata, senza amarezza né rampogne, dei nostri morti, di tutti quanti col mio stesso nome vissero in questa casa, e la amarono, e, sprofondati nel nulla durante il giorno, ora al richiamo dell’amica luna, la quale mutata non è mai, riaffiorano dalle pietre e dalla terra, e si distendono, lieve coltre di fosforescente nebbia, sul prato dove anch’essi giocarono bambini? […]». (Plenilunio)
E così, per Buzzati, la bellezza del plenilunio nella sua casa di campagna (o ad esempio il significante del paesaggio in Un amore) cela una risposta, l’unica risposta a cui possiamo tendere. E non come un fine, ma come la presa d’atto di un mistero, di fronte al quale noi, animali intelligentissimi ma deboli, siamo assolutamente impotenti. Un mistero che ci conviene accettare, senza presunzione e senza speranza, nella sua irriducibile luce.
Federica D’Ercole
Federica D'Ercole
Federica D’Ercole (Andria, 1988), Phd in Storia della Filosofia Medievale, editor per Quaestio (Annuario di Storia della Metafisica) e consulente Digital Marketing. Vive e lavora a Bari. Coltiva la scrittura come una delicata pianta da interno, spaziando tra testi accademici, drammaturgia, prosa e poesia. Per Nea Magazine ha scritto, nel 2018, Dino Buzzati, la letteratura, l’uomo e la condanna del tempo.