Dalla faglia primigenia di un Logos sconfitto: sulle impossibili movenze di Andrea Zanzotto

non-uomo mi depongo

ad attenderti senza nulla attendere,

già domani con me nel mio fuisse,

pieghe tra pieghe della terra

cieca ad ogni tentazione d’alba.

La poesia testimonia “un vuoto, un silenzio, una faglia primigenia”. Così scriveva nel 1972 Andrea Zanzotto, in “Uno sguardo dalla periferia”. Tutta l’opera del poeta veneto si costruisce lungo questa faglia. Scrivere da lì, cercare la voce che proviene dal suo fondo, significa avere l’ambizione di mostrare-realizzare la nascita della parola. Meglio: della parola-significato, della parola che vuol significare. Perciò lo stile: esercizi di scrittura, composizione e scomposizione di parole, impiego del dialetto, passaggi da lingua a lingua, padronanza assoluta di verso, rima, ritmo. Realizzare la nascita della parola, ovvero legare l’esperienza poetica con la riflessione sul linguaggio. Poetica genealogica della parola, della parola poetica, del linguaggio. Genealogia in atto. É poesia dell’essenza della poesia, com’era quella di Hölderlin per Heidegger, “poesia che riflette sulla poesia”, sulla scia della più alta produzione poetica contemporanea. (Si rimanda, piuttosto che alle migliaia di pagine che i filosofi hanno dedicato al carattere riflessivo della poesia novecentesca, all’analisi che Mario Luzi svolge sul rapporto tra questa riflessività e la crisi del nostro tempo, in “Discorso sulla poesia del Novecento” – Il pensiero, 1, 1997). Zanzotto conosce l’inaggirabilità, per ogni poeta, di Paul Celan. È necessario fare i conti con quella lingua impossibile che pure riesce a parlare nella catastrofe, che balbettando parla del balbettare, tra Barbari della ragione e Patriarchi. Nur allen und lallen / immer-, immer / zuzu. Se non si tiene conto del significato di Celan per Zanzotto (e in generale per la poesia contemporanea), è meglio leggere altro. Mille voci prive di significato e linguaggi assordanti hanno riempito il deserto che striscia tra la folla. Le biblioteche babeliche non proteggono, semmai condannano. E condannano pure il linguaggio, che le riempie, ad essere spalancato, arido, deserto. È qui, in questo Aperto, che prova ad abitare l’uomo, senza però esser più capace di abitare. Surrogati filosofici, cosmogonie dal simbolismo fumoso o visioni improbabili non basteranno a riempirne il silenzio. Questa la faglia. Fare poesia genealogica significa, allora, dal rumore cavare il suono, dal corpo ascoltare l’anima. Non : del corpo ascoltare l’anima. Ma : dal corpo ascoltare l’anima. La tradizione è capovolta

È l’anima, per Zanzotto, icona del corpo. Una religiosità del sensibile, della Terra. Non del divino, che è immagine umana del Sacro. Con le parole del poeta: “il Sacro non viene distrutto, ma passa alle spalle, si interra. Sussiste nell’oscurità, si sfa in una legione-miriade di meschini, chitinosi, fatui demoni, o libidines o virus, tanto più capaci di ledere quanto meno presenti a una coscienza che crede di aver tutto dominato e demistificato” Il Polo Supero, il Cielo, e il Polo Inferno, la Terra, uniti nel Sacro, in in-esplicata contraddizione, irrimediabile: “percezioni oscure finali e percezioni di una lucente dissolvenza finale tendono alla più folle delle reversibilità”. Religione del Sacro, non dell’imago di esso, religione della pura sensibilità. Sin dalla prima raccolta, “Dietro il paesaggio”, domina indiscussa questa devozione al sensibile. Zanzotto ascolta-vede-annusa le parole e le parole si fanno ascoltare-vedere-annusare. Le parole vengono incontro. Ma l’incontro non è un venire-incontro-a, o un andare-incontro-a. È un accadere. Accade l’incontro, meglio: si sente l’incontro. Lo si annusa, lo si ascolta, lo si percepisce. Lo si aspetta, pur anche nel framezzo in cui accade. Si va incontro all’Incontro. “Le casa che camminano sulle acque / e vogliono dirmi / benvenuto, se scendo dalla sera”. “Chiamate all’altra riva / in altro tempo / volarono lungi le barche, / sui tavoli bicchieri rovesciati / versano cera, / precipita la scala / verso inferni di neve”. O ancora. “Un senso che non muove ad un’immagine, / un colore disgiunto da un’idea, / un’ansia senza testimoni / o una pace perfetta ma precaria: / questo è l’io che mi dèsti, Madre e che ora / appena riconosco, né parola / né forma né ombra?”. Non ci sono, a ben vedere, cose, ma sensazioni. Nè oggetti né soggetti, ma puri sensibili. Non ci sono i giorni. Non c’è durata che possa contagiarci. Non si scrive di cose e giorni, ma della loro fugacità. Meglio: della fugacità dell’incontrarle, della fugacità del sentire. La scrittura di questa fugacità del sentire è unita all’incontro, non viene successivamente: non è “scrittura di”. È l’incontro. La voce che proviene dalla faglia, vi sprofonda: risalire e cadere, in unum. Il tutto della poesia è nella sensazione che precede il significato, per questo non è “scrittura di”, non è un doppio, non c’è un prima o un fuori di essa, non è una contraffazione del sensibile, È il sensibile e il sensibile è poesia, suono e icona. – Si capisce che la riflessione sull’operazione genealogica di Zanzotto, chiama allora in causa il problema, centrale per il nostro tempo, tra Schauwelt e Horwelt, se non, addirittura, il dramma del tramonto di Europa e la crisi della teologia politica. Per ragioni di spazio, ci si riserva di trattarne in un altro momento.

Riprendiamo. Provenire dalla faglia è cadervi. Ma quale movenza ha questa caduta? Alla ricerca del fondo “impraticabile e mancato” di ogni immagine, luogo, voce, Zanzotto riconduce il mondo a una topica mai quotidiana, familiare, mai di un soggetto, eppure che riguarda tutti, perché di essa parla ogni inciampo, ogni residuo. La trama flebile del reale, solo all’apparenza tanto possente, tanto ben fondato nella sua datità. La fragilità come il vero del corpo pesante della realtà. Un vero leggero, insostenibile, dalla voce soffusa eppure inviolabile. Come vi fosse, al di sotto della pesantezza colpevole della vita, un’originaria inviolata innocenza, disincantata, sempre pronta a rinnovare l’incontro, a darsi gratuitamente. È concessa, in particolare, alla cadenza semplice della vita contadina la grazia di liberare paesaggi nuovi, dove incontrare quel sempre ri-creantesi, nel suo incessante atto di ri-creazione. Perduto Abendland. La grazia di esperire il cominciamento, l’essere di quello che non-è. Ecco allora il poietes, che non è solo colui che riconosce e indica l’incontro, è l’evento-incontro stesso nel suo essere unione tra ciò che comincia ad essere e colui che lo scorge. Poietes del poietes, perché nell’incontro, Io-poetante e mondo fanno tutt’uno, perché anche l’Io sta nelle flebili e nascoste trame del mondo. Rectius: perché non vi sono né poeta né mondo, ma il venire dell’incontro. Ma come si esprime, parla, l’incontro? Come parlare della fragilità nascosta sotto ogni, sempre troppo violenta, significanza? Parla un misterioso logos sconfitto. Questa parola sconfitta apre alla sensazione di un altro scorrere, di un diverso passare. Mai progettante, mai proairetico, ma accogliente, destinale, volto verso l’incessante metamorficità dell’Essere. Eppure è destabilizzante. Nonostante la sua disincantata sconfitta, soffre. Soffre di essere sempre impossibile: per esso ciò che non-è si fa essente, ma se a farsi essente è appunto il non-essere (ciò che non è più e ciò che non è ancora), è sempre impossibile. Vive in questa contraddizione e sconfitta, di essere il logos che fa essere ciò che non-è, quando è impossibile che ciò che non-è, sia. Intrascendibile logos sconfitto, che pur riuscendo ad essere più reale del reale, non può esibire la propria essenzialità se non attraverso una movenza sempre negativa, sempre im-possibile. Impossibile e reale. Nessun positum da questo incontro, nessuna richiesta, nessun imperativo. Quale imperio, infatti, da e per ciò che si interra sotto ogni scelta, ogni vita, ogni storia, come loro condizione di impossibilità? “Il Sacro si interra”. Lì sotto, può incontrare un uomo, l’uomo sotto-voce. Terrae filius.

Ma ti, vecio parlar, resisti. E si anca i òmi
te desmentegarà senzha inacòrderse,
ghén sarà osèi –
do tre osèi sòi magari
dai sbari e dal mazhelo zoladi via -:
doman su l’ultima rama là in cao
in cao de zhiése e pra,
osèi che te à inparà da tant
te parlarà inte ‘l sol, inte l’onbrìa.

Questo elianto mutato dall’acqua

è il sole che io vado contando

nelle riposte frescure della terra

nelle botole dell’autunno.

Camminò negli specchi e nei boschi

inclinò la mia casa

rese false cornici e soffitti

ora non è che il fregio

dell’azzurro d’un feretro,

nel seno impallidito

di due fanciulle d’uva.

Il suo profilo liquido

e il suo colore ha colmato

le botti e i mari.

Giuseppe Gris
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