Ricordo dunque sono. In arabo e in ebraico zacar significa uomo e corrisponde alla radice di “ricordare” in entrambe le lingue. La radice minima dell’essere umani è la stessa in entrambe le culture. Si riannoda a un tempo in cui la vita era fuori posto, in movimento, nel deserto. Ricordare. La radice minima dell’identità è la stessa. Essere è ricordare. Colui che ricorda è umano. Umano è colui che conserva la memoria.
Chi sei? Ciò che ricordo e la lingua in cui lo esprimo. Da dove vieni? Da una storia che mi hanno raccontato, dal ritmo del linguaggio in cui è racchiusa. Nel deserto conoscere la provenienza di qualcuno significa conoscerne la genealogia, la storia che si trasmette di generazione in generazione. La provenienza non è un luogo, è un ricordo. Se vivi in movimento non vieni da nessuna parte se non da una catena di persone che ricordi e che a loro volta hanno ricordato. Il tuo nome non ti appartiene ma traduce i tuoi legami di appartenenza.
Il luogo esiste in funzione del tempo o non esiste affatto. Una società che vive in movimento nel deserto non riconosce altra architettura che la propria lingua per esprimere se stessa. Non ha luogo dove tornare se non una comunità con cui condivide il passato e il futuro. Non ha città dove seppellire la sua memoria né destinazione se non il percorso che porta alla sorgente. L’insieme delle norme sociali, la legge della comunità è, infatti, la via degli antenati. Halacha e shari’a, rispettivamente in ebraico e arabo, indicano il tracciato percorso dagli avi verso la fonte d’acqua, che è al contempo origine della storia e dell’esistenza. Ripercorrere la via degli avi, ossia aderire alla legge, senza che la sabbia ne ricopra le orme perdendo l’accesso alla sorgente, significa conservare la memoria. È la medesima radice minima.
La comune radice intima.
Questa è la radice comune a israeliani e palestinesi. Il sionismo ha deciso di rifiutare quell’identità radicata nell’assenza di radici. Era tempo di far fiorire il deserto, ricostruire quella dimensione spaziale la cui negazione era stata la radice prima. Era tempo di farsi sabra. Sabra in ebraico è il fico d’india. Sabir in arabo è il fico d’india. In entrambe le tradizioni rappresenta la radice ultima.
È tutto molto semplicistico, non bisogna lasciarsi ingannare. Ma seduce pensare che quella postura, quell’assenza di appartenenza a un luogo, quel senso di posizionamento nel tempo, sia persistito nella storia, nella lingua e nella cultura e resista ancora oggi nella radice minima. Affascina l’impressione latente che questa radice minima sia la ragione per la quale si siano promessi una terra continuando a significarsi proprio in virtù della propria assenza in quella terra. Da dove vieni? Da una storia che mi ha sradicato innumerevoli volte. Da un posto in cui mi è stato promesso di tornare.
La radice ultima non è autoctona – come potrebbe esserlo presso coloro che si identificano in relazione al tempo e non allo spazio. Proprio come gli ebrei dello Yishuv che tornavano a casa in un luogo dove non erano mai nati; così il tsabra, il fico d’india, è stato importato, innestato, incastrato. La pianta che costellava il paesaggio che la tradizione sionista vuole duro e ostile, arido e deserto, ricordava loro, fuggitivi della storia, sopravvissuti alla catastrofe, che dovevano farsi la scorza per perdurare, diventare duri e spinosi come il fico d’india per difendersi e mettere radici nella terra aliena che si erano promessi.
La radice ultima è l’ultima a ricordare. Nella tradizione palestinese sabir, il fico d’india, rimane a oggi una delle mute e incomprese testimonianze del fatto che il paesaggio che i sionisti volevano vuoto era al contrario abitato. La pianta ricorda inascoltata l’esistenza di paesaggi umani. Un tempo guardiana dei confini del villaggio, della terra coltivata, oggi custodisce la memoria dei cocci e delle rovine di ciò che non è più. Sabir significa anche pazienza, quella con cui quel ricordo sta aggrappato tenace al paesaggio, nelle rovine della memoria. La pazienza con cui la radice palestinese attende il ritorno e definisce se stessa.
Come la radice prima, anche la radice ultima è condivisa. La catastrofe da cui fuggivano gli uni è diventata la catastrofe degli altri. La radice intima è la medesima. Il conflitto definisce gli uni e gli altri, diversamente, ma inscrive la medesima sensazione di non appartenenza, di dislocamento alla base dell’identità. La memoria di ciò che è stato, il linguaggio con cui la si ricorda, la narrativa che la esprime è il rizoma dell’esistenza. Ramificata nella storia, inscritta nel paesaggio, infusa nella lingua, intrecciata alla quotidianità, la radice è la memoria. Ricordo dunque sono.
Ricordo di un quartiere affollato di viuzze il cui nome ricorda una comunità del luogo lontano in cui il sole tramonta in Africa che ha visto nascere il leader della resistenza all’ombra del muro che piange lo splendore del tempio del re che ha costruito Yerushalaim. Il nome della città ricorda stridente di essere stata città di pace, Al-Quds ricorda la sua santità polisemica.
Ricordo di un villaggio che ricorda di un monastero, Dar al-Shaykh, il santuario di un santo legato a un albero antico e miracoloso che cresce ancora oggi e vigila sulla moschea che non è stata distrutta dall’esercito. Bucata la cupola è stata lasciata a sfasciarsi da sola nascosta alla memoria dalle mappe e dalla vegetazione. Sfollati i villaggi, quelle valli hanno fatto spazio ad altri sfollati, ebrei ma anch’essi arabofoni, fuggiti dalle terre orientali, i mizrahim, accampati in tende che la casa del sole, Beit Shemesh, ricorda con dolore.
Ricordo di un varco, una porta alla città, quella che portava verso la terra dove nasce il sole, Al-Sham, la città del gelsomino, Damasco, attraverso Nablus. Ricorda quella porta il grande sultano che la rese sontuosa, Sulayman, il legislatore in queste terre, il magnifico là dove tramonta il sole.
Oggi ricorda il passo scaltro degli ebrei timorosi verso il kotel, lo sguardo basso dei bambini palestinesi sotto il calcio dei fucili, le portantine cariche di pane, le urla e il chiacchiericcio dei mercanti, le transenne dei coprifuoco, le esplosioni, le rivolte, gli accoltellamenti, le esecuzioni sommarie. Il profumo del gelsomino di Damasco non è mai stato più lontano.
Ricordo di una gola profonda, Wadi Qelt, una valle che annoda la città della pace alla città che si dice la più antica del mondo, Gerico. Ignara dei confini, sfrontata aggira checkpoint e mura di separazione e corre fino al Giordano. L’acqua che vi scorre ricorda l’impero sfarzoso che costruì quell’acquedotto; scroscia al fianco di beduini, coloni e ingenui venturieri; abbevera asini, cammelli, capre e turisti sprovveduti; irriga oasi, piscine e un monastero arroccato; rimbalza a un lato e all’altro della gola attraverso un complesso sistema di ripide sapienti e, infine, sfocia in una vasca sterile, il letto di un fiume contaminato e prosciugato dall’occupazione, sui cui si stendono solo carcasse ai margini di un campo profughi.
Ricordano, quei rifugiati, di provenire da oltre quella gola là dove la terra non è assetata perché bagnata dal mare, una terra di cui hanno nostalgia senza averla mai vista, da cui provengono senza esserci nati. La ricordano e vi ci si identificano in quanto eredi della memoria di coloro che vi erano nati. Sono nati dispossessati, come coloro che li hanno sfollati. Hanno ereditato la comune radice intima.