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Carlotta Tornaghi, Proteggi i capi che ami, 2022.

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Carlotta Tornaghi

Intervista a cura di Federica D'Ercole

Segue la nostra chiacchierata con Carlotta Tornaghi, curatrice di marzo per Nea Magazine. Carlotta ci ha aperto, letteralmente, il suo quaderno dei progetti e ci ha fatto salire sul suo palcoscenico. Perché questo è quello che tenta di fare con la sua arte: disegnare un palcoscenico. Il suo approccio è infatti estremamente teatrale e produce una forte intersezione tra fotografia e teatro. Il suo piglio è progettuale, analitico, al confine con il «maniacale». A partire dal mistero, Carlotta Tornaghi crea la sua rappresentazione tramite una creazione vera e propria delle forme, talvolta calata in un teatro dell’assurdo ricco di fascino e razionalità.

Di chi parliamo quando parliamo di Carlotta Tornaghi?

Io di base ho sempre pensato che la fotografia non fosse esattamente il mio mezzo, ma uno dei tanti mezzi che davano vita al mio quadro espressivo, di cui la fotografia era appunto solo una parte. Mi sono sempre espressa attraverso tecniche diverse – attraverso mezzi e strumenti diversi – e la fotografia era uno di questi strumenti, uno degli strumenti espressivi utilizzati in un mondo variegato a cui apparteneva anche il teatro, la scenografia, i costumi. Tuttavia la fotografia è il mezzo in cui mi sono trovata più a mio agio e che ho continuato a sperimentare e a sviluppare. È sempre stata uno dei mezzi rappresentativi per eccellenza per me, infatti, quello a cui volevo accedere era l’arte totale, anche se non credo di averla ancora raggiunta.

Qual è il tuo approccio alla fotografia?

Da un punto di vista tecnico, la triste verità è che in questo momento lavoro con la fotografia, vorrei però che il mio approccio a questo mezzo fosse più progettuale, perché in verità non lo è mai abbastanza. Vorrei seguire progetti miei personali e portarli avanti con una sorta di struttura progettuale meticolosa e precisa. L’approccio che vorrei avere alla fotografia consiste nel partire realmente da una parola, farci un bel rettangolo intorno, iniziare da una mappa concettuale e fare dei disegni che saranno poi alla base dei miei scatti. Appuntare visivamente, in sostanza disegnare delle fotografie da fare, progettarle e realizzarle. Dal punto di vista spirituale invece credo che la fotografia sia il mezzo che mi colpisce di più in questo momento, che mi suscita interesse ed è un mondo che tendo continuamente ad approfondire. Alle mostre fotografiche però preferisco il libro fotografico. A livello creativo invece credo che preferirei non essere stimolata da una fotografia per creare una fotografia, mi interessano molto di più le forme, i colori, le composizioni che poi mi permettono di creare delle fotografie, e questo è il mio modo di progettare, di lavorare: le forme si traducono in fotografia.

«Mi sono sempre espressa attraverso tecniche diverse – attraverso mezzi e strumenti diversi – e la fotografia era uno di questi strumenti, uno degli strumenti espressivi utilizzati in un mondo variegato a cui apparteneva anche il teatro, la scenografia, i costumi.»

Esiste un tuo progetto fotografico a cui sei particolarmente legata?

Il progetto a cui sono più legata è nato 3 anni fa, durante il corso alla Bauer, con Federico Clavarino. Il tema del corso era La trappola (il titolo del progetto è Proteggi i capi che ami n.d.r.). Ho realizzato il lavoro basandomi sulle trappole per le tarme negli armadi. L’elaborato infatti doveva parlare di noi e io in quel momento ero invasa dalle tarme (ci mostra l’intero book, i bozzetti e i disegni, n.d.r.). Questa è stata una produzione con cui sono riuscita a rappresentare perfettamente quello che descrivo come il mio intento, vale a dire la fusione di vari ambiti, aspetti, metodi e strumenti espressivi. È un’opera molto teatrale fatta di similitudini e metafore in cui sostanzialmente il gioco consisteva nel fotografare queste trappole che io andavo a studiare e ad analizzare, e alla fine quello che pensavo è che avrei riempito talmente tanto il mio armadio da finire per vestirmi con queste trappole. Questo era l’escamotage per creare qualcosa di totalmente indossabile. Un processo teatrale che partiva da un’esperienza personale: ed è questo l’approccio che volevo avere nei miei progetti. Un processo un po’ simile al teatro dell’assurdo. C’ero io che lottavo con questo nemico invisibile di cui rimaneva soltanto una traccia. Ecco, sì, questo è sicuramente il progetto a cui sono più legata perché è partito dal disegno, molto più di altri, e si è concluso con una rappresentazione quasi teatrale. Tutto in Proteggi i capi che ami è estremamente minimale, anche se in verità ci sono solo due scatti sulla vestizione di cui sono pienamente soddisfatta e questo lo rende a tutti gli effetti un progetto aperto. Sono molto soddisfatta delle prime fasi progettuali, dell’analisi dello still-life, delle trappole studiate meticolosamente, catalogate maniacalmente, ma mi manca ancora lo sviluppo della parte finale.

C’è un evento significativo che ha segnato il tuo modo di fotografare?

Direi proprio di sì. Ho studiato scenografia a Brera e la mia tesi finale verteva sulla didattica della Bauhaus, perché innanzitutto sono una grandissima fan della Bauhaus e della didattica in generale, e soprattutto perché mi hanno sempre detto che sembravo «uscita dalla Bauhaus». A me però questa cosa non tornava, quindi quello che ho sempre voluto dimostrare è che la Bauhaus non coincideva prettamente con uno stile pittorico ma era soprattutto didattica e per dimostrarlo sono partita dallo svolgimento degli esercizi preliminari che avevano assegnato agli studenti della scuola, per poi arrivare al compimento dei costumi teatrali di una scenografia, ma questo svolgendo gli esercizi, non creando una mera copia dello stile. Per me infatti non esiste nessun tipo di stile. In realtà il progetto era nato in modo tale che lo conducessi, io non dovevo creare niente. Dunque ho dovuto svolgere questi compiti e la fotografia era nata esclusivamente come mezzo per documentare quello che stava accadendo. Nel farlo ho creato queste composizioni di oggetti, questo era infatti il primo esercizio: partire da oggetti di scarto e di rifiuto e comporli per poi andare a disegnarli. Dovevo solo comporre delle forme e ho scelto di documentarlo perché ho trovato affascinate questa composizione dal punto di vista fotografico, ma avrei potuto anche bypassare questa fase e invece nell’approccio al fotografare queste composizioni mi sono trovata totalmente a mio agio tanto da dirmi: «Allora forse dovrei veramente puntare sulla fotografia nella mia vita». Il mio rapporto con la fotografia come primo strumento espressivo per me è nato da una fascinazione verso questi still-life che avevo composto.

C’è un progetto che vorresti realizzare anche con altri creativi, qualcosa a cui pensi spesso?

In questo periodo sono un po’ attratta dai modellini abbandonati al Politecnico. Nella mia ricerca spesso si sente molto il concetto di casa, mi interessa molto analizzare la casa. C’è sempre questo tema al centro dei miei progetti e vorrei fotografare questi modellini, infatti mi piacciono molto le miniature. Non ho ancora capito se questi modellini sono il fine o solo una parte del progetto. E poi ne sono molto attratta, nell’ottica di future collaborazioni con altri creativi. In questo periodo però credo di voler investigare e analizzare le nuove tecnologie e i nuovi materiali, sono in contatto infatti con imprese che producono poliuretano e spugne gonfiabili. Tanto che oggi il mio Instagram è pieno di queste cose un po’ nerd come le stampati 3D in carbonio. Questo è l’unico progetto che in realtà si allontana un po’ dall’idea di casa, che come dicevo è centrale nella mia produzione, dalla mera voglia di sentirsi totalmente partecipe del progetto. La casa c’è sempre, in quest’ultima fase invece no, non c’è. C’è innovazione tecnologica nell’ambito dei materiali. A pensarci adesso è un po’ strano ma è cosi.

Riusciresti a individuare un autore del passato che ti ha ispirato particolarmente?

Tutta la scuola Bauhaus: Làszló Moholy-Nagy e Oskar Schlemmer, loro capisaldi assoluti. Principalmente sì, loro. Moholy-Nagy, ora che ci penso, faceva un sacco di cose con il vetro, con materiali che all’epoca erano considerati innovativi, potrebbe essere un collegamento interessante nello sviluppo di un progetto futuro. Direi loro anche per la fascinazione che avevo un po’ per quel periodo, per quegli anni, per quella dottrina, per quello che rappresentavano e andavano a creare e per tutta la progettualità che c’era dietro la scuola Bauhaus. Oskar Schlemmer ad esempio poteva non essere meramente un costumista ma il risultato finale, l’attrazione che provo per quelle immagini fa scaturire in me fascinazione per tutto ciò che c’è dietro, soprattutto a livello progettuale.

C’è un autore che vorresti scrivesse a partire dalle tue foto?

Bella domanda. Sono tutti abbastanza morti (ridiamo e ribadisco che valgono anche i morti n.d.r.). Ho appena finito Le città invisibili di Italo Calvino e diciamo che quel tipo di narrazione rappresenta bene tutto quanto vorrei esprimere. Potrà sembrare banalissimo, ma le descrizioni assurde e irreali ma allo stesso tempo estremamente fotografiche di Calvino si sposerebbero molto bene con la narrazione delle mie foto che infatti sono spesso astratte. Quindi direi Italo Calvino.

Chi ci suggeriresti per la curatela fotografica mensile di Nea?

Forse qualcuno che non si avvicini a me sarebbe più interessante, per scovare personalità diverse nello stesso ambito. Ho pensato a una ragazza del periodo della scuola Bauer, Ivana Sfredda. Lei ha un approccio interessante, sempre legato agli oggetti della quotidianità, ma sono perlopiù oggetti da scovare, nel senso che lei crea degli scenari abbastanza sintetici, mentre io, invece, sono molto pulita ed estremamente razionale. Lei tende a sporcare molto la scena e a scovare quelle cose che ci sono ma che teniamo molto nascoste, basti pensare ai suoi ragni o denti, e lo fa in modo sintetico, nel senso del materiale, in modo molto plastico. Ecco, se io fossi un materiale sarei un legno molto pulito lei invece una plastica di quelle super lucide.

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